Scappano tutti dall’italia, ormai restare ti rende incredibilmente out. Questo è il primo assunto. Il secondo, è che il problema coinvolge trasversalmente tutte le categorie. Il terzo, è che tra le categorie più coinvolte in questo fenomeno di emigrazione forzata (o quanto meno necessaria) figuri quella dei musicisti, per la quale non si è soliti spendere troppe parole per l’evidente mancanza di presa sull’opinione pubblica, rispetto ad un ricercatore, un parrucchiere o un pizzaiolo. A Londra vive e opera da quasi 5 anni un duo tutto nostrano, campano il primo, abruzzese il secondo, che dopo i primi anni di formazione, complice una scena, la loro, quasi inesistente qui in patria, decidono di andar via. Frequentano uno dei migliori creative media college del mondo e iniziano a far girare il loro nome a destra e a manca attraverso progetti ambiziosi quanto affascinanti, che fanno di sperimentazione, ricerca e spocchiosità il loro punto di forza. Colonne sonore, installazioni, album mai uguali tra di loro, l’utilizzo di visuals, fino all’ultimo Diluited Sounds, un progetto lungo 365 giorni.
Loro sono Donato e Mauro, e insieme formano il progetto IASM, al secolo In a sleeping mood, che ho incontrato recentemente e con cui ho passato un paio d’ore molto piacevoli, scoprendo cosa sia un glitch, una patch su puredata e il modo migliore per approcciare una sinusoide.
Data la distanza fisica, e la difficoltà di conciliare la presenza di entrambi i transfughi in italia, optiamo dopo quasi un trimestre di vani tentativi, per l’alta tecnologia di skype ma al netto della qualità delle nostre reciproche connessioni, avrei fatto prima a prendere un lastminute per londra.
Li trovo davanti al computer circondati da cavetteria di ogni natura, e strumenti e controller midi di tutte le fogge e dimensioni, a godersi un temperato inizio della stagione estiva, mentre noi qui già abbiamo iniziato a boccheggiare.
Da Roma a Londra, era proprio necessario?
Non siamo di quelli che vanno via orgogliosi di farlo, non sbandieriamo nessun sentimento “anti-patriottico”, almeno non completamente, ma l’Italia è un paese strano. Il passaggio da Roma a Londra da un punto di vista prettamente umano è stato un cazzotto nelle viscere. Inevitabilmente fu assai brusco, ci trovammo dinanzi al dispiacere e al fastidio di dover abbandonare i posti che ami e in cui sei cresciuto, amici, parenti e fidanzate per perseguire i proprio sogni e per esprimere le proprie capacità. Daltrocanto mentre Roma era diventata una città che finiti gli studi iniziò a non offrire più nulla se non il calore degli amici e della sensazione di sentirsi a casa, londra si rivelò essere un’ esperienza esaltante e stimolante sotto diversi punti di vista. Continuiamo istintivamente a sentirla come “ostile”, ma crediamo sia decisamente solo una questione culturale. Le prime cose che saltano all’occhio sono l’interesse, la curiosita’ e il rispetto per la musica emergente nonché’ la totale apertura verso tutto ciò che e’ nuovo. Tutte cose che spesso in italia latitano per diverse ragioni.
Per quanto riguarda l’esperienza live, ci siamo spesso trovati a suonare in situazioni, per così dire, non “adatte” alla nostra proposta musicale ma la risposta e’ sempre stata sorprendentemente positiva. Al contrario, in Italia, abbiamo sempre avuto più difficoltà, sia nella proposta che nell’ascolto, che quando non contestualizzato, ci e’ sempre parso abbastanza distratto. Una bella esperienza fu la partecipazione all’LPM al Brancaleone di Roma, così come il concerto organizzato dai ragazzi di Epicentro Musicale a Pistoia, ma per il resto, locali per lo più poco adatti, anche tecnicamente.
Paradossalmente, diverse realtà artistiche e creative, di qualsiasi natura, nascono da italiani, il problema è che che purtroppo finiscono per dover essere sempre traghettate all’estero per poter essere realizzate e prese in considerazione.
Sono convinto che il problema non sia solo dovuto al loro set live, certamente complesso. Suppongo che in italia a meno che tu non faccia cover, se provi a portare sul palco qualcosa di più, come emergente, avrai sempre problemi, con la strumentazione, l’impianto, e il fonico annoiato. Ma vabbè…
Ometto l’accessa speculazione avuta a riguardo, e andiamo avanti.
Voi iniziate come musicisti vecchia maniera. Prima chitarristi poi polistrumentisti, avete alle spalle anche un validissimo Ep come Everyman. Cosa ha significato per voi intraprendere un percorso che per quanto affascinante obbliga a mettere da parte gli strumenti con cui siete nati artisticamente?
Non lo vediamo come un obbligo ma piuttosto come una naturale necessita’ dettata dalla nostra propensione a ricercare sonorità’ nuove, non solo per le nostre orecchie ma soprattutto per quelle degli ascoltatori. Il tentativo è quello di incuriosire ed invitare ad un’ascolto più’ critico e attivo rispetto alla proposta musicale a cui si è normalmente abituati.
Principalmente il nostro scopo e’ quello di rompere quel metaforico guscio di sicurezza, e forzare l’ascoltatore ad uscire dalla sua zona di comfort.
Per i profani, che tipo di scena è quella in cui state provando ad emergere, non sarebbe più facile imporne una in italia?
Il discorso qui e’ complicato. L’ambito in cui ci muoviamo raccoglie tutte le varie sfaccettature della digital art e dell’arte multimediale in generale. Quello che facciamo è provare a districarci tra sound design e sound art, performance, installazioni audio/video e pubblicazioni musicali.
Più’ che di scena si potrebbe parlare di un’estetica a cui sentiamo di appartenere che e’ quella glitch/lower case che pero’ e’ solo il punto di partenza. Sarebbe stato possibile rimanere, è vero, forse sembrerebbe la scelta più facile andar via, ma non è così. Iniziare qualcosa in italia poi è sempre complicato, ci sono richieste ed esigenze, da quelle più basilari a quelle più tecniche, che chi gestisce eventi, strutture e locali neanche comprenderebbe.
Finiamo per concordare che oltre a quanto già detto, esista una difficoltà essenzialmente di comunicazione, quando qui media e promozioni sono sempre troppo legati mani e piedi all’abitudine di coprire solo ciò che già sia seguito e ricercato, e che quindi già funzioni.
Mi chiedono una pausa, giusto il tempo materiale per preparare quei caffè da un litro e mezzo con cui amano approcciare alle cose gli inglesi. Rimango solo davanti alla webcam, rifletto su quanto un posto, volente o nolente, ti cambi: un litro e mezzo di caffè, a noi che siamo teorici dell’espresso. Mha.
Tornano con le loro tazzone fumanti, inglesissime, e avendo certamente capito la mia estraneità alle loro sonorità mi propongono, prima di continuare a chiacchierare, l’ascolto di tal Ryoji Ikeda. E’ qualcosa di avvolgente, perchè priva di punti di riferimenti concreti, è qualcosa che non puoi ascoltare mentre prepari un caffè, estraniante ed alienante nel senso più positivo del termine, è una pausa che ti prendi da tutto il resto. Mi ribadiscono, non tanto la necessità, quanto il valore aggiunto che potrebbe rappresentare il supporto video durante l’ascolto e allora citano tal Kurokawa, con cui l’estate scorsa hanno condiviso il palco di un festival a Pistoia, il tempo di dare un’occhiata in rete e tutto mi è ancora più chiaro. Senza dubbio è una prospettiva nuova, per chi suona e non, da cui ricominciare a concepire musica, suono e, certamente, performance artistica.
E allora parliamo di questo supporto video: valore aggiunto o condizione necessaria e sufficiente?
Qui i due smettono, finalmente, di rispondere all’unisono. Si parlano addosso, alternando intense sorsate di caffè a movimenti decisi della testa, a volte di consenso, altre di disapprovazione. Le visioni sono diverse ma su una cosa sono daccordo e provano a spiegarmelo.
L’obiettivo principale del nostro lavoro artistico e’ quello di trovare un modo nuovo di fare arte.
Non riesco a non far notare che è anche un po’ quello che dicono tutti, poi lascio che continuino.
Possono sembrare arroganti e pretenziosi, ma daltrocanto capisco quanto possa essere difficile parlare di sé artisti, volendo però prendere le distanze dall’idea stessa di arte e di fare arte. Sono concetti immensi e forse spesso sarebbe più facile deresponsabilizzarsi a riguardo, ma loro non sembrano essere fatti per le cose facili.
Non crediamo nella divisione sensoriale delle esperienze, e nel tempo siamo diventati sempre più scettici riguardo la possibilità che qualcosa di nuovo possa nascere, nella musica così come in qualsiasi altro ambito artistico se si continua a rimanere bloccati al concetto stesso di ambito artistico come esperienza a sè stante.Per questo motivo siamo convinti che per ora quello che possiamo definire “apporto visivo” sia una parte preponderante del nostro lavoro perche viatico per il raggiungimento di quel fine utopistico che è la creazione di un nuovo linguaggio (o non linguaggio) artistico.
Rispetto ad altre formazioni, i ragazzi del progetto IASM colpiscono per l’atteggiamento da “bulletti” della scena, l’aria di chi sa perfettamente cosa fare e per arrivare dove. Quasi riescono a convincermi siano effettivamente ad un livello successivo rispetto alla media. Quanto tutto ciò sia dovuto all’aria stessa di londra, o ad un’attitudine personale già insita, non mi è dato saperlo, certo è che i nostri due connazionali hanno le idee chiare. Chiedo loro, quasi provocandoli, di definirmi in assoluto il loro principale obiettivo artistico.
L’esigenza di un obiettivo artistico è limitante. Noi abbiamo una necessità, che è quella di esprimere noi stessi come “artigiani del Suono”, il cosiddetto Sound Designer, che in Italia il più delle volte è associato a mestieranti annoiati su un mixer audio, privo di qualsiasi valenza artistica.
Mi sento un po’ chiamato in causa, ma non lo do a vedere, certo è che, mea culpa, ho sempre considerato fonici, sound designer e ingegneri del suono, membri di una sola immensa famiglia.
Ogni sound designer “lavora i suoni” e persegue un metodo. Il nostro consiste nello sfruttare al massimo le “nuove tecnologie” per poter vivisezionare il suono, portare alla luce i più piccoli dettagli visibili solo al “microscopio” così da ampliare un vocabolario sonoro che alle nostre orecchie risulta stantio e inflazionato.
Cosa abbia prodotto questo nuovo approccio è presto detto e potrebbe essere riassunto (o forse no) in Diluited Sounds, un progetto lungo 365 giorni, un esperimento sonoro – direbbero loro – rilasciato giorno per giorno, accompagnato da visuals, il tutto della durata di massimo 90 secondi. Di cosa parliamo?
Diluted Sounds puo’ essere considerato un progetto “raccolta” di questi “esperimenti sonori” che abbiamo chiamato sketch, associati ad una controparte visiva che come già detto aiuta la fruizione di un certo materiale sonoro che ad un primo ascolto potrebbe sembrare ostico. Cio’ non toglie che spesso questa seconda natura dello sketch possa andare oltre l’aspetto complementare e prendere perfino il sopravvento.
E questa follia dei 365 giorni?
Abbiamo provato a dare al concetto di tempo un’interpretazione su due livelli: i 365 giorni e quindi la durata dell’intero progetto, e il tempo interno, ristretto, minimo, di ogni sketch che abbiamo deciso di limitare ad un massimo di un minuto e mezzo.
Con la durata annuale abbiamo voluto dare all’ascoltatore uno spaccato della nostra esperienza musicale, aprire le porte del nostro “studio” ed eliminare la barriera tra l’ascoltatore e il “compositore”; ma soprattutto cercare di far comprendere almeno in parte la dedizione per quello che facciamo e che ci appaga.
Il limite interno agli sketch invece e’ arbitrario e funzionale allo scopo. Secondo noi un minuto e mezzo a sketch da all’ascoltatore il tempo necessario per immergersi nei dettagli e processare appieno la materia sonora.
In breve ci accostiamo alla concezione minimalista di Cage secondo cui la musica si distacca dalle categorie di spazio e tempo, vivendo di una vita propria a priori.
Personalmente, considero il progetto Diluited Sounds interessantissimo, bello e ben fatto, ma al contempo frustrante. Spesso il minuto e mezzo, checchè ne dicano loro, non mi è sembrato abbastanza. Esprimo loro la mia ingenua convinzione secondo cui la maggior parte degli sketch di Diluited Sounds siano pezzi meravigliosi stroncati sul nascere, facendo anche presente il mio palese fastidio, come ascoltatore. Loro se la ridono, con fare di chi abbia raggiunto un obiettivo.
Per fortuna c’è anche tanto altro: la partecipazione all’album dei Codeine, forse il momento più mainstream degli IASM, tanto per capire di che pasta siano fatti, così come il remix del singolo degli In Violet, due Ep, Nebula del 2010 per Anomolo Records, e Draft, l’anno dopo, per Yo! Netlabel, e ben altri tre progetti audio/video, “Sounds of Failure”, ”The Vitruvian Intonation (ThePostHumanCondiotion) a Buenos Aires, e “Resonant Cityscape” (ospitato e performato alla Menier Gallery di Londra), tutti in collaborazione con altri artisti (Jamie Lynne Griffiths, Annalisa Terranova, Jesica Lewitt, Alex Lumsden, Cherry Pickles, e ADT, Jacopsen, Xamuash, parte dell’Aelion Project) in virtù di quella trasversalità artistica tanto cara agli IASM.
E ora un un nuovo progetto, forse due, dopo Nebula e Draft, di nuovo sotto etichetta. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi, se ce ne sono, del lavorare non potendo rendere conto solo a sé stessi, ma dovendo buttare un occhio anche a vendite e promozione?
Nebula, come Draft d’altronde, sono la base su cui abbiamo costruito la nostra attuale produzione, un modo per conoscerci e farci conoscere. Soprattutto Nebula fu a suo tempo per un passo gigante da quello che eravamo abituati a fare e ci ha proiettato in un mondo nuovo, di ricerca, molto più’ appagante (artisticamente) rispetto ad essere costretti nelle solite categorie musicali ed espressive in generale.
Al momento sono diversi i progetti che stanno nascendo: abbiamo in cantiere un’installazione/performance che ci terrà impegnati per i prossimi sei mesi mentre a breve usciranno almeno due pubblicazioni, una delle quali già in fase finale ed entrambi saranno lavori audio/vide, che è a suo modo ancora qualcosa di nuovo, o almeno poco battuto, per essere degli album. La presenza di un’etichetta in realtà non può avere svantaggi, almeno finchè permane una certa libertà di scelta produttiva, che per quanto maggiormente influenzata rispetto ad un’autoproduzione o alla prepazione di una performance, rimane una condizione essenziale.
Per quanto possa sembrare strano il nostro approccio e’ quanto di più spontaneo possa esistere; il processo compositivo che parte dalla generazione di frequenze fondamentali e neutre che combinate tra loro permetta la costruzione di tessuti timbrici e ritmici (difficilmente raggiungibili attraverso l’utilizzo di strumenti musicali tradizionali), raramente può essere sottoposto a manipolazione da terzi. Questo approccio diretto nei confronti della materia sonora ci da’ la convinzione, o forse l’illusione, di poter agire senza costrizioni e, al contempo, chi cerca questo tipo di pubblicazioni parte dal presupposto che un certo modus difficilmente possa essere veicolato o indirizzato. E’ una scena dove chi si cerca e si trova, già è consapevole di cosa cerca e cosa trova, artisti, pubblico, ed etichette. Per il resto i vantaggi sono immensi, dalla maggiore esposizione al pubblico, all’aumento di risonanza delle performance e dei concerti collegati alle pubblicazioni. A tal proposito è stato altrettanto fondamentale il contatto con l’agenzia Low-Fi Promotion (per altro italianissima) che ha di recente aggiunto gli IASM al proprio roster. Parliamo di un’agenzia che gestisce le uscite live di artisti internazionali quali Chinese Man, Radikal Guru, Gentleman Dub’s Club e Zion Train. Al di là della nostra maniacale ossessione per le sessioni in studio, non vediamo l’ora di riuscire ad imporci con maggiore continuità anche sul piano prettamente Live.
Che in fin dei conti rimane l’habitat ideale di ogni musicista, qualsiasi sia la sua natura, chiudo io. Tutti daccordo.
Il materiale degli InaSleepingMood, al di là di qualsiasi discorso più o meno trascendentale, ha evidentemente infinite possibilità di utilizzo e diffusione. La mancanza di veri riferimenti strutturali o melodici, l’assenza di una forma-canzone rende la natura, intima ma spesso violenta e irrompente degli IASM, conciliante, quasi non se ne possa fare a meno, con realtà video, e lo abbiamo detto, ma anche con il cinema a qualsiasi livello (installazioni, documentari, cortometraggi ecc). Numerose sono infatti le soundtrack firmate IASM, e allora provo ad informarmi su ipotetiche attività parallele, e quanto le due realtà (artistica e lavorativa) si tocchino, si sfiorino o piuttosto si ostacolino.
Il mondo in cui viviamo non sostiene l’artista in quanto tale, di conseguenza abbiamo scelto di intraprendere una carriera lavorativa parallela continuando però ad utilizzare la nostra personale expertise. Questo ci ha portato a conoscere registi, musicisti e artisti in generale con cui abbiamo avuto la fortuna di collaborare per produzioni, sound design e le soundtracka a cui facevi riferimento. Entrambi poi, in solitaria abbiamo, meno recentemente, prodotto album per altre band, o abbiamo lavorato come fonici, e addirittura turnisti. E’ frustrante, a volte, ma siamo comunque coscienti della “fortuna” o della possibilità’ che ci siamo creati, lavorando non-stop per 5 anni, che ci permette ora di lavorare, insieme, rimanendo quanto meno nell’ambito che ci appartiene.
Alla fine sembra chiaro che superata una certa fase, tanto dignitosa quanto artisticamente mortificante, fatta di lavori salturari nei bar e nei pub, come manovale negli studi, di altri e per gli altri, o come fonici di sala per eventi dal dubbio spessore, attualmente, come duo, tutto rientri nell’attività del progetto IASM. Per di più, aggiungo io, raccogliendo l’unisono consenso dei due “dirimpettai” sarebbe limitante decidere cosa sia prettamente artistico e cosa non, un album come una colonna sonora è comunque espressione di questi due ragazzi, con la differenza che con la seconda ci pagano l’affitto, tutto qui. Che per farlo siano dovuti andare via, e ora preferiscano caffè annacquati in tazza lunga in luogo di massicci espressi da bar, è tutto un altro (triste) discorso.
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