Se avete perso la PT 1 | Tutto bellissimo, e ben fatto, se non fosse per l’equivoco culturale evidente ad ogni loro concerto, dove, se sul palco i Charcoal si esibiscono, interpretando al meglio il loro ruolo di rocker “nostrani”, dall’altra parte, il pubblico, come impreparato, li acclama con una compostezza disarmante, da recita delle medie. Imbarazzante. La giustificazione è nella sostanza, del resto, le rivoluzioni c’è chi le fa e chi le indossa, ed essenzialmente ai nostri amici giapponesi, a cui non mancava nulla, mancava solo tutto il substrato storico-sociale che ha permesso ad un genere come il punk rock di emergere, affermarsi, fino a diventare musica pop. Ogni altra parola è superflua, il minuto 3:51 del video è certamente molto più esplicativo.
Sono certo che da Liverpool, gli inglesi, e il mondo, guardassero Caterina Caselli, piuttosto che i nostri Corvi, con il medesimo spirito critico; esisteva nel nostro caso però un atteggiamento diverso. Tutto ciò che in Italia veniva rappresentato, era pur sempre qualcosa di vissuto, in tempo reale, magari andando sul posto, e non di assunto, con anni di ritardo e privato di qualsiasi contesto. Come i Charcoal, centinaia di altre formazioni, più o meno simili e più o meno famose, sono accomunati da un unico enorme punto in comune che ne rappresenta, in fondo, anche la loro reale natura: essere rimasti in Giappone. Acclamati come divinità nella loro terra come fenomeno a sé, ma completamente sconosciuti al resto del mondo, e alla scena musicale.
Altre volte, l’emulazione però può confondersi con l’ispirazione, e i risultati, come altra faccia di una stessa medaglia, possono essere assai diversi. Il grottesco è sostituito dalla genialità, e il prodotto commerciale diventa momento di qualità; l’imitazione diventa interpretazione, e succede che dal Giappone possano iniziare a darci lezione, come già succedeva millenni fa. Inutile soffermarsi su notevoli progetti già ampiamente decantati da critica e pubblico quali i Mono, autentici maestri della musica strumentale di inizio millennio, o i più recenti Toe; quello che recentemente è riuscito a colpirmi è il meraviglioso caso dell’eroe indie, made in japan, Shugo Tokumaru. Come tutti i bravi bambini asiatici, Shugo a cinque anni è già un irritante mostro di bravura, in quasi tutto molto probabilmente, ma soprattutto con il pianoforte; qualche anno dopo, passerà fatalmente alla chitarra elettrica e alla batteria, svelando pian piano la vena polistrumentista che caratterizzerà tutta la sua produzione artistica.
Intanto, era il 1994, con i Clash già non più attivi da quasi 10 anni, e Shugo mette su la sua prima rockband (con cui tuttora collabora) con cui ripropone, in giapponese, tutta la discografia della storica formazione inglese. E’ l’inizio di un processo che mentre per molti, in Giappone, si ferma poco dopo, si incaglia nell’adulazione da parte dei propri conterranei e nella possibilità di produrre qualcosa di esclusivamente mainstream, basato sull’imitazione, e sul desiderio di un successo vissuto in modo dirompente, ma di riflesso perchè rappresentazione di qualcosa che da quelle parti manca, per Shugo si trasforma in opportunità, quando lascia il Giappone, per quasi tre anni, restando a lungo negli Stati Uniti. Il risultato è un giovane artista, che partendo dallo studio del pianoforte e dal desiderio di suonare come i Clash, reinventa il poprock indiependente, con intelligenza lo fa proprio, sceglie di non scimmiottarlo, ma di interpretarlo, e unendolo ad elementi musicali nuovi, spesso mutuati dalla propria tradizione, produce tra il 2004 e il 2012, ben cinque album, tra cui il capolavoro Port Entropy, nel 2011, a mio giudizio, tra le migliori uscite di quell’anno.
Così, mentre i Charcoal Filter erano idoli esclusivamente dalle loro parti, Shugo Tokumaru, partendo da una demo prodotta nel suo appartamento a Los Angeles, arriva, dopo aver fatto impazzire gli stessi americani, fino in Europa, con tour in Francia e in Spagna; proponendo performance live di altissimo livello, dove non c’è rappresentazione di nient’altro, se non di sé stesso. Le soluzioni sono cose già viste, certo, l’artista polistrumentista, gli arrangiamenti saturi di “toys” musicali e di scampanellii, le melodie orecchiabili a fil di voce sono tutti elementi che svelano la frequentazione di una certa scena pop/folk indiependente duranti i suoi anni americani, ma Shugo mutua e non semplifica, mai. E quando ritrovi anche qualche traccia dei Beatles tra le sue melodie, comprendi realmente tutto lo studio e l’approfondimento che c’è dietro l’artista. La musicalità della lingua giapponese poi è sorprendente e, vuoi la natura più riflessiva/meditativa del genere, ma tutto sembra esattamente al posto giusto in ogni suo lavoro. Nulla è fuoriluogo, ogni elemento è dosato, e il modo in cui tutto il folk-rock indiependente americano, e non, degli ultimi dieci anni sia sintetizzato in una formula nuova arricchita che vi invito a scoprire, non può che strappare un sorriso d’ammirazione. Diverso da quello compassionevole e ironico riservato per anni a tutta la scena J-Rock.
Il miglior indierocker degli ultimi anni, nell’agosto del 2013, suona a Seattle, ospite degli studi KEXP, e mostra disinvoltura e mestiere; anche il suo gruppo è perfettamente calato nella parte, non manca nulla, c’è anche la strumentista hipster, nel suo vestitino a fiori vintage, e il batterista con gli occhialoni nerd, ma ciò nonostante tutto suona incredibilmente nuovo. Ottimo lavoro. Se la lingua fosse l’inglese, sarebbero ovunque, persino in Italia. Direttamente dal Giappone, che non vincerà mai i Mondiali, ma ci osserva da sempre e ha imparato nel tempo a mostrarsi migliore di quello che conosciamo, o preferiamo conoscere. Il Giappone non è più quello dalle due facce in contrasto perenne; la dicotomia tra tradizione e una certa modernità fatta di plastica e superficialità, di parrucche e tintura per capelli, è ormai un luogo comune che andrebbe sdoganato. I modelli, per fortuna, non sono più Holly o Ken il Guerriero, che un giorno però mi piacerebbe riuscire a vedere con i loro occhi a mandorla; non ci sarebbe nulla di male, credo, e certamente acquisirebbero ancor più credibilità, di quanta già ne abbiano, sia chiaro.
Il Giappone ci è più vicino di quel che sembra; se se ne accorge, siamo fottuti. O anche no.
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