Il Giappone ci osserva, più di quanto la Cina dicono si avvicini. Il Giappone ci osserva, ci invidia, vuole essere come noi, che viviamo nella porzione del pianeta dove il sole tramonta e che siamo, ai loro occhi, il miglior risultato delle rivoluzioni culturali a cui loro ambiscono da secoli. L’ammirazione nipponica nei confronti di noi occidentali mi fu chiara da subito, fin da quando, in età prescolare, consumavo i miei pomeriggi seguendo le mirabolanti avventure sportive di calciatori giapponesi che, pur sempre estimatori di onogiri, sushi e del camminar scalzi per casa, presentavano caratteri tecnici e somatici molto più simili ai nostri Zico, Platini e Tardelli. Il Giappone vinceva i mondiali e i suoi atleti erano castani, biondi, alti, di occhi a mandorla nessuna traccia. Sia ben chiaro, il fenomeno non è imputabile solo al popolo del sol levante, successe più o meno la stessa cosa a noi, in Italia, quando i nostri migliori musicisti iniziarono a guardare con estasi e furbizia oltre i nostri confini, durante gli anni della beat generation. Tuttavia con il dovuto rispetto per i nostri “urlatori”, prima, e per gli italici reinterpreti della british invasion, poi, il desiderio di emulazione dei giapponesi, è ben altra cosa, è a un altro livello. Se in Italia, il processo emulativo era essenzialmente di stampo culturale, travolti da un contagioso vento di ribellione e di emancipazione (poi successivamente divenuto economico e di tendenza), facilitato, senza dubbio, dalla vicinanza, relativa, con Stati Uniti e Regno Unito, in Giappone il fascino è tutto nei caratteri ironici, e a volte grotteschi e disarmanti, che il fenomeno acquista. La loro necessità di sembrare più simili all’occidente è senza dubbio estrema, frutto di una ancor maggiore frustrazione generata dall’appartenenza ad una cultura basata, da troppo tempo, sulla formalità e uno stucchevole senso di dignità che ormai mal si coniugano con gli attuali standard di società dati come vincenti.
E non solo, tempo addietro, lessi addirittura di qualcuno che riteneva fondamentale, ai fini di un giudizio completo sul popolo giapponese, dover considerare anche la loro impellente ricerca di una variabilità somatica nonché di pensiero che proprio non gli appartiene. Se ne potrebbe parlare per ore, è chiaro, ma gli effetti di tale processo di emulazione acquisiscono il significato più profondo, producendo anche i risultati più interessanti, quelli di cui vale la pena parlare, in campo musicale. Orde di cantanti e musicisti giapponesi si cimentano con il nostro rock d’oltreoceano. Sembra proprio che più una cosa non gli appartenga, più loro si ostinino a rappresentarla, mostrando a volte una tenera inadeguatezza e altre una genialità e un acume tutto orientale. Glissando sul karaoke e certe esibizioni da strada che invito ad approfondire, su tutta la musica degli anime che spesso riflette i gusti musicali di quel dato momento (indimenticabili certe sigle progrock, ska, hardcore), e sulle derive trash che di tanto in tanto il fenomeno di emulazione può acquisire, è ovvio che sia molto più probabile trovarsi dinanzi ad esempi del primo tipo. Quello che il più delle volte accade è che le impeccabili capacità compositive e arrangiative, che facilmente un asiatico medio può raggiungere, cozzano irrimediabilmente con il maldestro tentativo di unire tradizioni e significati culturali troppo diversi tra di loro. E’ il caso dei meravigliosi Charcoal Filter, che nel 1995 risentendo dell’ondata emotional hardcore che dall’altra parte del mondo stava vivendo già la sua seconda fase, e dopo anni trascorsi ad ascoltare Greenday e Nofx, conquistarono tonnellate di pubblico in tutto il Giappone con il loro, ben impacchettato, punk rock in lingua madre.
Ma continueremo a parlarne domani…
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